La cosiddetta “cabin fever” è una condizione psicologica che può determinarsi nel momento in cui una persona, o un gruppo di persone, si ritrovi isolata o rinchiusa per un periodo di tempo esteso. E questo è il punto di partenza di miriadi di film horror (La Casa, per fare solo un nome), in cui l’isolamento e l’impossibilità di spostarsi o comunicare con l’esterno hanno sempre fornito terreno fertile per raccontare vicende agghiaccianti. Al classico tema, però, Eli Roth (Hostel, qui all’esordio) aggiunge l’elemento del contagio, con uno strano virus che porta ad una completa decomposizione del corpo.
Un gruppo di ragazzi, per festeggiare la fine degli esami, fitta uno chalet, ovviamente sperduto, dove passare qualche giorno di puro relax e divertimento. Ben presto le cose prendono una brutta piega, nel momento in cui un uomo col volto completamente insanguinato bussa una sera alla loro porta implorandoli di aiutarlo. Spaventati ed incerti sul da farsi, i giovani temporeggiano e l’uomo, visibilmente privo di controllo, sale sulla loro macchina per partire, ed inizia a vomitare sangue. A quel punto i ragazzi lo aggrediscono per scacciarlo, e nella colluttazione l’uomo prende fuoco a causa di una torcia tenuta in mano da uno di loro, e corre via nel bosco. Da questo episodio prende il via il contagio, che pian piano colpirà tutti loro. Come da buona tradizione, sono isolati in quanto i cellulari non hanno campo e la macchina non parte, e vani si rivelano i tentativi di cercare aiuto nei dintorni.
Cabin Fever offre un campionario di personaggi di contorno decisamente sopra le righe, ma a modo loro interessanti: il bambino che morde chiunque gli si avvicini con una furia ed una voglia che farebbero pensare al cannibalismo, la donna in occhiali da aviatore che squarta un maiale, il ragazzo (interpretato dallo stesso Roth) proprietario del cane che si rivelerà ultra aggressivo, il vice sceriffo che non fa che parlare di baldoria.
Intrigante la storia narrata da uno dei ragazzi una sera intorno al fuoco: racconta di come un pazzo avesse anni addietro legato i dipendenti di un bowling ciascuno ad una sedia, di come li avesse disposti in circolo affinché potessero guardarsi l’un l’altro ed infine li avesse uccisi con un martello. Per completare l’opera, aveva tagliato loro gli arti, usandoli per giocare a bowling. Le sequenze che descrivono quell’avvenimento sono probabilmente tra le migliori del film, sebbene non abbiano nessun collegamento con la trama.
L’intento di Roth con questo film era quello di riportare nei cinema un horror violento e pieno di sangue, alla stregua di quelli degli anni Ottanta, e ci riesce, con una buona dose di splatter e di sangue, ma forse per bilanciare questo aspetto compie l’errore di svilire i caratteri dei personaggi principali, tutti sufficientemente delineati ma con comportamenti a volte poco credibili, specialmente nella reazione troppo “leggera” nel momento della tragica scoperta di un’amica dilaniata, e nel modo in cui uno di loro finisce a badilate un’amica ormai divorata dal virus. Discreta anche la conclusione della pellicola, col virus che per vari motivi continua a diffondersi, lasciando la porta aperta per il seguito, programmato per il prossimo anno, ma che non sarà diretto da Roth.
Splatter/gore che non si prende troppo sul serio (e basti pensare ai passaggi da teen comedy disseminati qua e là), Cabin Fever si arrabbatta tra buone situazioni e momenti di stanca. L’impressione generale è che sia stata messa troppa carne al fuoco, ma senza sfruttarla, ed anche i momenti di tensione sono pressoché inesistenti, con dei frequenti crescendo di atmosfera e colonna sonora che poi si risolvono in un nulla di fatto. Eli Roth, che dà subito prova di buona perizia tecnica, ha in ogni caso il merito di aver riportato in auge gli horror “come si facevano una volta”, e questo è già un buon motivo per essergli grati.