Prodotto e distribuito da Netflix, A classic horror story è diretto da Roberto De Feo (The nest – Il nido) e da Paolo Strippoli, qui all’esordio.
Proprio da The nest voglio partire, perché per struttura ci sono alcune assonanze. Entrambi i film hanno un incedere molto classico, colmo di citazioni più o meno esplicite. Sfruttano i topoi del genere, di cui viene dimostrata un’ottima conoscenza. Eppure non si tratta di film derivativi, perché sia in The nest che in A classic horror story c’è un punto di svolta (nel finale per quanto riguarda il primo, all’inizio del terzo atto per il secondo) che ribalta tutto ciò che era accaduto fino a quel momento.
Parlando di A classic horror story, ci troviamo al cospetto di un gruppo di persone che condividono un pulmino tramite carpooling. Durante il viaggio verso la Calabria, però, faranno un incidente, e da quel momento in poi entreranno in un incubo che pesca nell’immaginario pagano/ritualistico di film come The wicker man, Midsommar o The ritual, volendo rimanere in ambito Netflix. La casa nel bosco rievoca per architettura quella di Gretel e Hansel. La cura per la fotografia, l’uso del colore, il taglio registico appartengono a quel filone di horror che provano a elevarsi dalla sciatteria, dalla produzione riciclata, dalla carenza di idee e di intenzione.
Qui di intenzione ce n’è, e diventerà sempre più palese. Il film funziona anche nella sua componente più classica, perché ha la capacità di andare a pescare una leggenda fortemente radicata nel nostro territorio, e nel meridione nello specifico: quella di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, considerati i padri delle mafie. Le loro figure assumono i contorni di creature orrorifiche leggendarie, quasi delle divinità temute e adorate. Già solo questo sarebbe bastato a rendere A classic horror story un film comunque meritevole di attenzione, per aver cioè calato un canovaccio classico in un contesto nuovo, diverso, meno battuto, che affonda le proprie radici nel territorio e in quello che comunemente viene definito folk horror.
Ma De Feo, Strippoli e la squadra di sceneggiatori non si fermano qui, perché nella parte conclusiva del film si divertono a ribaltare ruoli e significati, a urlare in faccia alla spettatore il messaggio del film, scagliandosi contro l’industria cinematografica italiana, parlando di horror, di gusto del pubblico, aggredendo i media e lo show del dolore.
Nel ribaltamento e nella metanarrazione salta all’occhio quello che, probabilmente, è il vero e principale riferimento di questa operazione: Quella casa nel bosco (che, in ogni caso, vi invito a recuperare).
Eppure, A classic horror story mantiene alcune peculiarità che lo rendono, a conti fatti, un prodotto unico, fresco, godibile, realizzato con mano sicura, con un’idea precisa e un obiettivo in mente.