La seconda metà degli anni Ottanta rappresentò per l’horror italiano una sorta di canto del cigno, una fase già calante che avrebbe aperto le porte alla pressoché stasi creativa e produttiva del decennio successivo. Tra le cose più rimarchevoli del periodo ci fu proprio l’ascesa di Michele Soavi: dopo aver lavorato con Joe D’Amato ed aver svolto la mansione di aiuto regista per Lamberto Bava e Dario Argento, il regista milanese ottenne finalmente l’opportunità di dirigere un film tutto suo, sotto l’ala protettrice di D’Amato che produsse il film e diresse la fotografia nelle fasi conclusive delle riprese.
Se il nome di Michele Soavi vi dice qualcosa e non siete cultori dell’horror, non vi state affatto sbagliando, poiché a partire dalla fine degli anni Novanta, il nostro si dedicherà alle produzioni televisive, dirigendo tra gli altri la serie di Ultimo ed il film commemorativo sulla strage di Nassiriya. Come ulteriore nota di colore, il soggetto e la sceneggiatura di questo suo debutto cinematografico sono a firma di tale Lew Cooper, altrimenti noto come George Eastman, ma nato Luigi Montefiori, già incontrato su queste stesse pagine nei panni del folle cannibale di Antropophagus. Il cinema horror italiano, gira e volta, è stato fatto da un manipolo di persone che ritroviamo in vari ruoli e sotto vari nomi in molteplici progetti. Ultima – stavolta sul serio – nota da sottolineare, è la presenza del mai troppo lodato Giovanni Lombardo Radice, a modo suo un’icona dell’intero decennio che vide l’esplosione, il successo commerciale ed il declino del genere che noi tanto amiamo. Di lui vogliamo ricordare in particolar modo le morti sempre assai cruente che erano riservate ai personaggi che interpretava.
Il titolo del film è quanto mai azzeccato, ma non perché sia particolarmente onirico, ma proprio per via di una trama che presenta delle situazioni realmente fuori da qualsiasi logica umana. All’interno di un fatiscente e spoglio teatro, un gruppo di sedicenti attori ed una raffazzonata troupe tecnica è alle prese con le prove per uno spettacolo. Una delle attrici, tuttavia, soffre di un dolore alla caviglia ed ha bisogno di cure. Il regista-fuhrer non permette a nessuno di abbandonare le prove, così la ragazza, assieme all’amica Betty, sgattaiola fuori con la complicità del custode. A questo punto succede la cosa più assurda che io abbia mai visto nella mia vita di cinefilo: sulle pagine gialle, Betty trova l’indirizzo del più vicino ospedale, del tutto incurante del fatto che si tratti di un manicomio. Alle ovvie rimostranze di Alice, ribatte dicendo con noncuranza “E’ pur sempre un ospedale, no? Quindi ci sono i medici!”. E che vuoi ribattere ad una tale linearità di pensiero?
Nell’ospedale psichiatrico pare albergare un serial killer che aveva fatto a pezzo svariate persone e, manco a dirlo, quando arrivano le ragazze riesce a fuggire. Dove, vi chiederete voi? Ma nella loro macchina, così quando rientrano al teatro dopo le medicazioni alla caviglia dolorante di Alice, senza saperlo si portano dietro anche il pazzo furioso, che non mancherà di seminare il terrore uccidendo a più non posso e celando il volto con una maschera da gufo. Ecco a voi il plot di Deliria, uno slasher di taglio classicissimo: ambiente chiuso, gruppo di persone che non ha via di fuga, un serial killer che li fa fuori uno dopo l’altro in maniera violenta ed abbastanza fantasiosa, spesso andando anche a scontrarsi con le logiche fisiche, naturali e temporali.
Risulta assai chiaro che il soggetto è debole, eppure a dispetto di alcune ingenuità notevoli, la sensazione di una buona mano a dirigere il tutto si ha fin dal principio: ritmo buono, dialoghi non troppo sopra le righe, inquadrature spesso molto azzeccate. Tuttavia, il meglio viene riservato per la fase finale, quando Soavi, probabilmente con la partecipazione più che fondamentale di D’Amato, mette in piedi una sequenza folle quanto bella esteticamente, portando sul palcoscenico tutta la follia del serial killer/gufo, che dispone le sue vittime e si gode lo spettacolo come farebbe un soddisfatto regista col suo gruppo di attori. Prima prova ottima di Soavi, questo è bene sottolinearlo. I limiti maggiori il film li evidenzia in sede di soggetto e di sceneggiatura, ma per questi non si può far grosso carico al regista poiché non fu lui a curare quegli aspetti. La maturità artistica ancora non era totale così come il controllo della produzione, ma di sicuro è abbastanza chiaro il motivo per cui prima Joe D’Amato e, di lì a pochissimo, Dario Argento abbiano puntato forte su questo talentuoso regista milanese.