Erano undici anni che Pupi Avati non faceva un’incursione nel thriller/horror, dai tempi de L’Arcano Incantatore. Troppo tempo, per un regista che ha all’attivo pezzi di storia del nostrano cinema di genere come La Casa Dalle Finestre Che Ridono e Zeder. Il ritorno ad uno dei suoi primi amori cinematografici avviene con una storia che affonda le proprie radici nel classico horror all’italiana, del quale possiede buona parte dei requisiti, miscelato con una vena di stampo tipicamente gotico.
Il prologo mostra l’inizio di una vicenda avvenuta nel 1952 presso un gerotrofio di Davenport, Iowa, in cui una novizia rimasta probabilmente incinta cerca di ribellarsi agli ostacoli posti alla sua felicità dalla madre superiora e dalle due anziane ospiti, coadiuvata dalla sua amica Egle. L’azione si sposta ai giorni nostri, in corrispondenza dell’uscita di una donna di origini italiane da un centro di igiene mentale, dove era stata ricoverata anni addietro per le voci che continuava a sentire nella sua testa. Desiderosa di ricostruirsi una vita, si reca proprio a Davenport, dove intende realizzare il suo sogno: aprire un ristorante italiano. Individuato l’edificio adatto, guarda caso lo stesso che ospitava il gerotrofio di cui si è fatto accenno nel prologo, inizia a mettersi all’opera per allestire nel minor tempo possibile il suo locale, ma le prime manifestazioni non tardano: sente una voce, la voce gracchiante, stridula e debole di una donna, probabilmente anziana.
E’ a questo punto che prende il via una vera e propria indagine, una ricerca della verità che finisce per miscelare vecchi rancori e segreti che diverse persone vogliono che tali rimangano. Al centro di tutto è proprio la vicenda avvenuta tra quelle mura cinquantacinque anni prima, che sarà svelata tassello dopo tassello, fino all’inverosimile finale.
Come si diceva in apertura, l’impianto della pellicola è estremamente classico, incentrato sulla caratterizzazione dei personaggi di contorno (uno dei quali interpretato da Giovanni Lombardo Radice, vecchia conoscenza degli horror italiani degli anni Ottanta) che aiutano o ostacolano la ricerca della donna, mettendo in mostra falsità, infamia e rancori mai sopiti.
Storia contemporanea ma anche fuori dal tempo, Il Nascondiglio gode di una indubbia maestria registica, in particolare sull’uso delle luci ed ombre che arricchiscono e rendono fascinose diverse sequenze all’interno della casa, nonostante vada sottolineato che spesso l’abuso di tale tecnica renda poco credibile la situazione, in quanto risulta difficile immaginare un’abitazione fornita di corrente elettrica e di un impianto funzionante così poco illuminata.
Lo svolgimento della matassa è piuttosto lento, aspetto tra l’altro aggravato dalla eccessiva brevità di alcune sequenze, soprattutto quelle investigative durante le quali la donna, interpretata da una scialba Laura Morante, dialoga con varie persone, con degli stacchi che a volte non lasciano intendere dove lei si trovi e che pista stia seguendo. Poco credibile inoltre la sua pervicacia nel tentativo di risolvere la faccenda e scoprire la verità di un qualcosa totalmente lontano da lei, a dispetto dei rischi che via via corre, tra minacce e diffamazioni di varia natura. Infine, va detto che il finale, per quanto sia indubbiamente ben concepito ed in grado di mettere una dose di inquietudine, è totalmente inverosimile, facendo perdere credibilità all’intera vicenda.
Avati, insomma, confeziona un prodotto formalmente e contenutisticamente sufficiente, che avrebbe potuto guadagnare qualche punto extra con una differente gestione dei tempi, poiché le scoperte che la donna compie nel corso del film sono piuttosto rade e spesso frammentarie se non inutili.