Prima di guardare Rovine, ho dato un’occhiata fugace all’argomento trattato: Yucatan, tempio Maya, piante carnivore. L’idea di una pianta carnivora in un film horror non mi sembrava geniale, e temevo si potesse risolvere il tutto in una grande accozzaglia di luoghi comuni ed in una trama noiosa e poco consistente. Subito dopo, tuttavia, ho scoperto che si tratta di un adattamento di un romanzo di Scott B. Smith, che tra l’altro ne ha curato anche la sceneggiatura, ragion per cui mi sono accostato con maggiore curiosità alla visione della pellicola.
Due coppie di ragazzi americani, in vacanza in Messico, conoscono un tedesco e si uniscono a lui per una visita ad un tempio Maya fuori dalle guide turistiche. Riescono a giungervi con non poca fatica, visto che si trova piuttosto distante dalle strade e per giunta totalmente immerso nella foresta, ed al loro arrivo si verifica qualcosa di strano: nei dintorni del tempio vive una popolazione indigena, incapace di comprendere e parlare sia l’inglese che lo spagnolo, che si dimostra minacciosa non appena i ragazzi si avvicinano alle rovine, ricoperte da vegetazione. In particolare, nel momento in cui uno dei ragazzi calpesta inavvertitamente la pianta, viene ucciso dagli autoctoni. I giovani a quel punto in preda al panico iniziano a scalare il tempio, una sorta di piramide a gradoni, e si rifugiano sulla sommità.
Il ragazzo tedesco è allarmato perchè non vi è traccia di suo fratello e della squadra che stava lavorando alle rovine, e ad un tratto sente il suono del cellulare, che riconosce essere proprio quello di suo fratello, provenire da un’apertura posta sulla vetta della struttura, all’interno della quale è possibile calarsi tramite una corda. I ragazzi sono totalmente bloccati, da una parte perchè scendendo sarebbero andati incontro al popolo minaccioso, dall’altra perchè i cellulari non hanno campo (e questa sta diventando una consuetudine piuttosto banale ed abusata nei thriller/horror odierni) e quindi non hanno modo di mettersi in comunicazione con nessuno. Non tarderà a manifestarsi anche la natura della pianta, un’enorme ammasso di rampicanti dotata anche di una sorta di meccanismo senziente che le permette di attaccare e di agire seguendo precise logiche.
Non viene risparmiato qualche momento drammatico sia dal punto di vista dei legami affettivi spezzati per sempre, sia per ciò che concerne lo splatter: in tal senso, notevole la sequenza dell’amputazione delle gambe di Mathias, il ragazzo tedesco, effettuata con l’utilizzo di un masso per rompere le ossa e di un pugnale per tagliare la carne residua, il tutto naturalmente senza alcun tipo di anestesia. La pianta, oltre alla sua propensione al consumo di carne umana, ha una sorta di meccanismo che le consente di attecchire all’interno dell’organismo umano, sviluppandosi al suo interno e portando, inevitabilmente alla morte dell’individuo. Il crescendo di drammaticità porta alla comprensione del perchè gli indigeni si dimostravano così minacciosi e ad un finale fatalistico.
Rovine ha dalla sua una buona caratterizzazione psicologica dei personaggi, le cui reazioni, i cui comportamenti sono analizzati con cura e ben approfonditi, rendendo la discesa verso gli abissi della disperazione e, in certi casi, della follia un processo credibile e strutturato. Sostanzialmente non gli manca nulla, e anzi forse va anche oltre, sia con la sparata molto nazionalista che uno dei ragazzi fa ad un tratto, affermando che quattro americani sperduti in Messico verranno sicuramente cercati e salvati da qualcuno, sia con qualche eccesso di giochini da allegro chirurgo che Jeff, studente di medicina, compie nel tentativo di aiutare i compagni feriti o in difficoltà. Eppure manca qualcosa, quel quid in grado di rendere affascinante e coinvolgente la vicenda.
Nessun vizio di forma, buona narrazione, splendidi esterni naturalistici girati in Australia, nello stato del Queensland, ma il film lascia poco allo spettatore, che però, concluso il film, può dilettarsi canticchiando Hot Stuff durante i titoli di coda.