Per fortuna che di tanto in tanto spunta fuori un Session 9. No, non è innovativo. No, non contiene effetti speciali o make-up da urlo. E’, semplicemente, un film girato bene, con gusto estetico ed abilità nel gestire tempi e tensione, in un percorso spiraliforme che scende sempre più a fondo nei meandri delle paure umane.
Gordon Fleming è un uomo di mezza età che gestisce una piccola ditta di bonifica sull’orlo della bancarotta. Convocato per un colloquio per un appalto, si rende conto che è un’occasione unica, forse l’ultima, per tenere in piedi la sua ditta ed il suo lavoro, e fa un’offerta al di sopra delle possibilità materiali: completare la bonifica dai residui d’amianto di un vecchio manicomio in una settimana, contro le due se non tre che sarebbero state necessarie. L’appalto viene vinto e Gordon, il socio Phil, i dipendenti Mike ed Hank ed il nipote Jeff iniziano a lavorare sodo per rientrare nei tempi prestabiliti.
L’ex manicomio è in disuso da ormai circa vent’anni, ed è un magnifico quanto enorme edificio risalente al tardo ‘800, realmente esistente a Danvers, nel Massachusetts. Nel corso del primo sopralluogo, Gordon è stranamente attirato da una sedia a rotelle abbandonata in un corridoio, e mentre la fissa, quasi ipnotizzato, sente una profonda voce maschile chiamarlo per nome, in una sorta di invito. Le lunghe e faticose giornate di lavoro proseguono, ma qualcosa inizia ad andare storto: Hank scopre un nascondiglio pieno di antiche monete e gioielli, e la notte seguente si reca da solo nell’edificio per portare il tutto con sé senza essere visto dagli altri. Mentre raccoglie la refurtiva, sente dei rumori. Nei corridoi dei piani inferiori non c’è illuminazione, e con la torcia fatica a vedere a distanza. La tensione aumenta, ma finisce per scoprire che si tratta solo di un uccello. Solo che non è affatto così, ed oltre all’uccello c’è qualcun altro.
A questa linea narrativa se ne legano altre: quella di Gordon e della sua situazione familiare, e quella delle registrazioni rinvenute da Mike. Riguardano delle vecchie sedute terapeutiche ed hanno come protagonista una bambina di nome Mary, affetta da disturbi della personalità. In lei convivono personalità multiple: quella della Principessa, quella di Billy e quella di Simon, ciascuna relativa ad uno specifico aspetto del carattere della bambina. Nelle sessioni di registrazione, nove in tutto, si andrà pian piano dipanando il mosaico di ciò che la bambina ha subito, o fatto, fino a trovare un legame con ciò che sta avvenendo in quel vecchio edificio abbandonato. Ed il finale non mancherà di sorprendere, oltre che farsi apprezzare per ottima costruzione.
Partiamo subito dal difetto maggiore del film, vale a dire il montaggio, troppo caotico ed a tratti quasi “sbagliato” per chiusura e legatura con la sequenza successiva. Brad Anderson, con pochissimi mezzi a disposizione – su schermo non si vede assolutamente nulla – ed un ridottissimo cast, in un’unica location è capace di girare un film dannatamente interessante. Ci riesce per un motivo semplicissimo, ma che paradossalmente sembra sfuggire a tanti altri suoi colleghi e sceneggiatori: la psicologia dei personaggi, i loro rapporti, le situazioni personali, le loro motivazioni.
Session 9 è capace di scavare nella psiche dei suoi protagonisti, e facendo questo scava anche in quella degli spettatori. I cambi di prospettiva sono molteplici, e si arriva agli ultimi cinque minuti della pellicola col timore di essersi persi qualche dettaglio importante e di non aver capito nulla. Ed invece no, perchè è tutto lì davanti, viene spiegato tutto e tutto appare credibile e follemente lucido nella sua parziale ed innata irrazionalità. Un capolavoro, dunque? No, perchè a ben pensarci si tratta di una vicenda dai connotati derivativi e risalenti al classico Shining di Stanley Kubrick: il personaggio con problemi psichici ed il costante ed inesorabile aggravarsi delle sue condizioni, ed un luogo le cui mura sono imbevute di storie macabre, iniettate di dolore e follia. Eppure Session 9 riesce a mantenere una propria identità forte, distinta, e vanta delle recitazioni di alto livello soprattutto nei personaggi di Gordon e Phil, interpretati da Peter Mullan (già miglior attore al festival di Cannes con My Name Is Joe del 1998) e David Caruso (l’Horatio Caine del serial CSI: Miami).
In pillole: pollice verso per alcuni aspetti tecnici e per una somiglianza marcata con una trama già ampiamente famosa, ma pollice alto per tutto il resto.