Un film giusto per la fine dell’estate, questo The Devil’s Candy. Il bombardamento della sempre attiva e vigile Midnight Factory, ormai uno dei fari per l’horror su celluloide in Italia, mi ha colpito per la forte immagine e per il sottofondo in chiave metal. Così, fondendo un mondo sonoro e un immaginario a me cari, non ho potuto fare a meno, al rientro dalle ferie, in una giornata piuttosto lenta e con un raffreddore incombente, di dedicarmi alla visione del film.
Jesse è un pittore che cerca di sbarcare il lunario lavorando su commissione dipingendo allegri quadri con farfalle da vendere alle banche invece di dedicarsi alle sue vere ispirazioni. Con la moglie Astrid e la figlia teenager Zooey si trasferisce in una grande casa nel Texas, fulminato dalla possibilità di sfruttare il fienile come studio per il suo lavoro. Tuttavia, prima di procedere all’acquisto, vengono informati della motivazione del prezzo basso: in quella casa, in passato è avvenuta una duplice morte, quella di una donna caduta dalle scale e di suo marito, che non aveva retto al dolore della perdita. Noi, gli spettatori, sappiamo che questa versione dei fatti non risponde a verità, dato che nel prologo abbiamo assistito proprio a quell’episodio e fatto la conoscenza del tormentato Ray.
Ossessionato da voci che lo incitano a compiere azioni violente, Ray si è macchiato di un primo omicidio in tenera età. Dopo essere rimasto internato per vent’anni in un manicomio, ha ripreso la sua attività criminale, sempre vittima delle voci demoniache che infestano la sua mente. Voci che tenta, invano, di zittire suonando la sua Gibson Flying V rossa a volume altissimo, e attirandosi inevitabilmente le ire dei genitori o del vicinato.
Nei primi giorni di residenza nella nuova casa, Jesse sembra essere vittima dello stesso tipo di ossessione: inizia a sentire voci, dipinge in uno stato di trance immagini molto disturbanti che rievocano episodi passati o premonizioni. Gli elementi sembrano portare a pensare che nella casa ci sia una qualche presenza soprannaturale che finisce per possedere chi la abita, portandolo a uccidere, ma il percorso dei protagonisti del film sarà invece diverso, togliendo il velo solo nelle battute finali, dove i ruoli saranno chiaramente svelati.
Il sottofondo musicale, l’immaginario, i colori e alcune scene fanno sì che The Devil’s Candy richiami alla mente il tocco e lo stile di Rob Zombie. Tuttavia, Sean Byrne, già messosi in luce con The Loved Ones, pur muovendosi bene e dirigendo con buona mano, non dispone delle abilità e della capacità di dipingere l’arcano che ha invece il multiforme artista che è Zombie. Dove però Byrne riesce a dire la sua in maniera interessante è in quell’interstizio tra orrore, thriller e vincoli di sangue: la famiglia è il vero nucleo del film, ne è il motore e soprattutto ne è la soluzione. La scelta compiuta da Jesse è chiara, e il dialogo con Leonard, il proprietario della galleria d’arte Belial – altro riferimento biblico a un demone – evidenzia il suo sacrificio per mettere davanti a tutto la propria famiglia.
Il quadro più significativo che Jesse dipinge nel corso del film è sicuramente quello con un demone che sovrasta dei bambini urlanti con gli occhi neri. Tutti, tranne Zooey, che presenta invece le sue normali fattezze, indice di come il suo destino non sia ancora scritto e che proprio suo padre può scegliere quale debba essere. Nella via tra il possibile successo come artista dannato e l’incolumità della famiglia, Jesse non ha esitazioni nello scegliere. Il finale, letto nell’ottica appena descritta, appare un po’ di maniera e melodrammatico, ma riesce a tirare le fila e a sfruttare tutte quante le immagini iconiche che stanno alla base del film: fuoco, musica, sangue e sacrificio. Non è un caso che il gesto risolutivo venga compiuto con l’uso di una chitarra elettrica.
La visione è complessivamente soddisfacente: The Devil’s Candy è un film compatto (togliendo i titoli di coda, dura poco più di un’ora e dieci minuti), in cui la progressione della storia è costante e non ci sono passaggi inutili. Lo spazio per i dialoghi è ridotto al necessario e non c’è neanche l’ombra di una spiegazione, non necessaria. L’approfondimento della figura di Ray è mostrato e mai detto, tant’è vero che le battute del personaggio sono in numero assai esiguo. Quindi promosso per scrittura e per messa in scena, The Devil’s Candy non può pretendere nulla di più di una piacevole visione, senza troppe pretese di originalità, di sorpresa, di brividi o di autentico e raro valore. Quello che fa, lo fa piuttosto bene. E poi un film coi Sunn O))) tra gli autori della colonna sonora va visto a prescindere.