I dialoghi rappresentano uno degli incagli per molti autori alle prime armi.Si sente spesso dire che per scrivere buoni dialoghi sia necessaria la capacità di ascoltare e di stare dentro ai discorsi delle persone: quelli catturati al bar, al mercato, per la strada, durante la pausa pranzo, nei corridoi delle scuole, tra dirimpettai e in qualsiasi altra situazione della vita quotidiana.
Nei testi degli aspiranti autori è piuttosto frequente una totale assenza di dialoghi, o comunque una presenza limitata. In alternativa, non è raro imbattersi in dialoghi laccati, finti, privi di ritmo.
Si è dunque condannati a scrivere cattivi dialoghi se non si appartiene alla schiera dei fortunati che hanno il dono di saper ascoltare e memorizzare cadenze, uso dei registri, peculiarità sintattiche, vezzi dialogici e comportamentali rispetto al gesto del parlare?
La mia risposta è no perché, come quasi ogni altra cosa nell’ambito della scrittura, è possibile esercitarsi e imparare.
Imitare e riprodurre
Prima di tutto, un paio di definizioni.
Le parti del testo in cui a parlare è il narratore, o un io narrante, si definiscono, con un termine accademico, diegetiche, o più banalmente narrative.
Le parti del testo in cui a parlare non è il narratore, ma un personaggio oppure un elemento esterno (la voce proveniente dalla televisione, una lettera, un libro ritrovato, una scritta sul muro, un annuncio alla radio, la battuta di un film e così via) si definiscono, con termine accademico, mimetiche, o più banalmente imitative.
A differenza della narrazione vera e propria, il dialogo si pone come imitazione di un testo che sta fuori del testo.
Quando un autore scrive: “Il cielo era scuro e minaccioso”, i lettori capiscono che sta cercando di mostrare loro il cielo stesso, nel tentativo di trasferire un’immagine dalla sua mente a quella dei lettori. Quindi, l’autore non sta imitando il cielo, lo sta narrando o, come si tende a dire, lo sta mostrando.
Invece, se in un testo un personaggio dice: “Scusi, c’è ancora una stanza libera?”, la battuta viene percepita dal lettore come imitazione di una battuta reale o, quantomeno, imitazione di una battuta possibile.
Parole vuote e parole ridondanti
Nella scrittura, la differenza tra la riproduzione e l’imitazione riguarda soprattutto i tempi.
Se ascoltiamo attentamente un dialogo registrato, ci accorgiamo subito di quanto sia pieno di battute e parole che non fanno passare nessuna informazione (parole vuote), e di battute e parole che ripetono e ribadiscono informazioni già date o comunque implicite (parole ridondanti).
Il buon dialogo scritto è quello che non contiene né parole vuote, né parole ridondanti, o che ne contenga il meno possibile.
Esiste tuttavia un’eccezione. In certi casi, infatti, l’uso consapevole di parole vuote o di ridondanti riveste un ruolo ben preciso, quello di caratterizzare un personaggio. Attraverso l’uso e l’abuso di questo tipo di parole, è possibile mostrare in maniera efficace un personaggio che cerca di svicolare, di sottrarsi al confronto, o ancora l’ossequiosità di uno e la reticenza dell’altro.
Possono dunque esistere dei dialoghi che non servono a far passare al lettore le informazioni letteralmente contenute nelle battute, ma a rappresentare il tipo di relazione esistente tra i personaggi. Questi dialoghi potranno tranquillamente essere farciti di parole vuote, di ridondanze, di frasi convenzionali.
Gestualità e spazi del dialogo
Altra caratteristica del buon dialogo è che non è costituito unicamente dalle battute scambiate: contano anche i gesti e i movimenti dei personaggi.
I gesti diventano una sorta di punteggiatura del dialogo, ma possono anche diventare un contrappunto al dialogo stesso, dicendo cose che non vengono espresse con le parole.
Per scrivere un buon dialogo, quindi, bisogna soprattutto immaginare gli spazi dell’azione e il movimento dei personaggi in questi spazi.
Nel momento in cui si pensa al dialogo, si rivela particolarmente utile immaginare la narrazione come una messa in scena.
In un film, è raro che gli attori stiano totalmente fermi a lungo anche durante un dialogo. Ed è quello che bisognerebbe ricreare in una scena scritta di dialogo. È il momento di dare sfogo ai vezzi dei personaggi, alle loro manie, alla gestualità, e in definitiva a tutti quegli elementi che danno vita ai personaggi di una storia.
Criteri per scrivere buoni dialoghi
- Evitare di abusare dei nomi dei personaggi. Fai riferimento alla vita reale e basati su quella per stabilire quando è il caso di fare chiamare un personaggio per nome. Per esempio, nel caso di due persone molto intime, non è molto frequente che si utilizzi il nome. Si tende a farlo in momenti emotivamente intensi, molto meno in un dialogo quotidiano. La cosa importante è non farcire le battute dei dialoghi di nomi dei personaggi, perché suona molto finto e inaccurato.
- Un buon dialogo, in linea di massima, è fatto di tante parole piene e di pochissime parole vuote. Le interiezioni, le esclamazioni, i saluti, le frasi di circostanza, le battute insignificanti: tutto questo appartiene alla conversazione reale, ma non alla conversazione scritta nelle narrazioni.
- Il primo nemico del buon dialogo è la ridondanza. Quando scrivi una battuta e sei in procinto di scriverne un’altra, prova a chiederti: “Ciò che B risponde ad A, può essere intuito dal lettore?”. Se la risposta è: “Sì, da ciò che A dice, da ciò che si sa di B, dalle circostanze, il lettore può intuire che cosa B risponderà ad A”; se la risposta è questa, allora la risposta di B è semplicemente superflua.
- Un dialogo avviene sempre tra almeno due personaggi, in uno spazio. È quindi costituito anche dagli incroci di sguardi, dai movimenti dei personaggi, soprattutto dagli avvicinamenti e dagli allontanamenti, dai contatti dei corpi. Tutte queste dinamiche sono connesse anche allo spazio nel quale avviene il dialogo. Bisogna quindi immaginare bene lo spazio e gestire i personaggi come registi alle prese con degli attori.
- Questi movimenti possono essere usati per far dire ai personaggi, attraverso il linguaggio del corpo e la gestualità, cose diverse da quelle che dicono con le parole. Un certo grado di contraddizione tra parole e corpo rende più credibile e umano il personaggio.
- Ogni volta in cui una battuta di dialogo può essere sostituita da un gesto, è opportuno farlo. Il lettore ha bisogno di cose da vedere, e un gesto sarà sempre più visibile della più azzeccata delle battute.
- Il dialogo ideale è quello in cui si usa sempre il più semplice dei verbi, “dice”, “disse”, per attribuire le battute. Il lettore è in grado di comprendere l’intonazione di voce e l’enfasi in virtù delle parole stesse e del contesto di riferimento.
- Gli scopi primari del dialogo sono due: definire la relazione tra i personaggi e far progredire l’azione.
- Nel dialogo la punteggiatura può essere usata in maniera leggermente diversa. È possibile, infatti, inserire punti e virgole tenendo conto più di un ipotetico parlato che della sintassi e della logica. È inoltre preferibile non esagerare con i segni di intonazione, quali i punti esclamativi e interrogativi: come già detto, l’intonazione dovrebbe intuirsi dalle parole stesse e dal contesto.
- Nei dialoghi in cui un personaggio parla molto e l’altro sta ad ascoltare, è bene che di tanto in tanto il soliloquio dell’uno sia interrotto: non necessariamente da interventi dell’altro, ma anche da gesti e movimenti.
- Nelle scene d’affetto, è bene che sia il corpo a parlare.
- Se in una stanza sono presenti più personaggi, sarebbe ideale che tutti partecipassero al dialogo. Se però qualcuno non parla, allora è il caso che faccia comunque qualcosa, e che il lettore ne sia informato.
Conclusioni
Come su molti altri argomenti di scrittura, anche per i dialoghi è complicato individuare delle regole sempre valide.
Tuttavia, vale il solito, buon adagio della consapevolezza.
Infatti, nonostante si sia detto che le parole vuote, quelle cioè che non portano informazioni, andrebbero evitate in un buon dialogo, è altrettanto vero che in certi particolari casi diventano invece un mezzo efficace per mettere in evidenza delle caratteristiche precise di un personaggio, che il lettore è in grado di cogliere proprio grazie al suo continuo utilizzo di parole vuote.
Ogni elemento va scelto e gestito con la consapevolezza di ciò che si sta facendo, dei motivi delle tue scelte autoriali e degli effetti che vuoi produrre sul lettore.
In generale, è bene ribadire come il dialogo in narrativa non sia una trasposizione fedele di un dialogo autentico. Un dialogo autentico, infatti, è costituito da pause, ridondanze, momenti in cui si cerca di dire qualcosa ma ci si confonde o si ingarbuglia il discorso. Tutti questi elementi non dovrebbero essere presenti in un buon dialogo scritto, che invece dovrebbe essere ricco di significati su vari livelli e caratterizzato da una certa sintesi.
È però altrettanto vero che sia utilissimo affinare l’orecchio per i dialoghi reali, per cogliere le differenze nel parlato, i vezzi, i gesti, le reazioni del corpo, tutti gli aspetti, in definitiva, che non sono parte del parlato ma che sono invece integrati nel meccanismo comunicativo, in quanto trasferiscono significato e stati d’animo quanto se non più delle parole stesse
Come ti poni rispetto ai dialoghi? Cerchi di riprodurre la realtà o di renderli più narrativi? Usi molti dialoghi oppure cerchi di farne a meno?