Dopo qualche erotico esotico, Ugo Liberatore si cimenta con l’horror con un soggetto da lui stesso scritto e che tocca temi demoniaci. Ambientato in una Venezia grigia e sepolcrale, fotografata in maniera molto interessante, il film muove i suoi primi passi portandoci a conoscere Christine e Mark, una ragazza e il suo fratellino cieco. Sin dalle battute iniziali, Christine denota un certo malcontento nel portarsi appresso il ragazzino. Diciamo pure che il poveraccio viene preso a pesci in faccia un po’ da chiunque per via del suo handicap, con una certa umanità. Tuttavia, lui sembra fregarsene il giusto, non reagisce mai ed è piuttosto preso dalle sue strane visioni.
I due, orfani dei genitori, perdono anche la nonna e si trasferiscono nella malconcia pensione degli zii, i Winters. Mark si troverà alle prese con improvvise visioni durante le quali riacquista temporaneamente la vista e vede un uomo vestito di nero, con un bastone e un levriero al seguito. Nelle visioni non succede nulla di particolarmente inquietante, eppure il ragazzino sviluppa la convinzione che quell’uomo incarni il demonio. Dopo qualche tempo e in seguito alle misteriose morti degli zii – che porti sfiga il ragazzino? – l’uomo delle visioni si palesa e, dopo aver salvato Mark, viene ospitato nella pensione, dove allaccerà una fugace relazione con Christine prima di andare via. La ragazza scoprirà di essere incinta, il che fa immediatamente correre la mente a Rosemary’s Baby e alla nascita dell’anticristo.
Il crescendo della prima metà del film non si risolve più di tanto, in quanto il corpo centrale del film vive di pochi elementi buttati nella mischia ma con scarsa amalgama. Nonostante le atmosfere siano effettivamente funeree e sulfuree, è solo negli ultimi, visionari minuti che si raccolgono i momenti più inquieti e visivamente estremi della pellicola. Dopo una blasfema ultima cena al femminile, si assiste all’omicidio del neonato che viene lanciato contro una scultura piena di lunghi aghi e a una risurrezione, seguita da discorsi deliranti ma anche piuttosto inquieti. Il tutto contribuisce a lasciare un senso di disagio al termine della visione del film, che persiste e fa sì che ci si ponga delle domande. Come si diceva, però, la storia non è sufficientemente solida e risolta per avere una credibilità, anche nel suo essere fantasiosa.
Nero Veneziano soffre di diversi difetti: deboluccio nel cast, con recitazione e dialoghi per la maggiore molto fiacchi, è caotico e farraginoso per buona parte della sua durata, trae conclusioni per lo spettatore senza però fornire i necessari strumenti, e poi svolta oniricamente nella parte finale regalando i momenti migliori dal punto di vista estetico e concettuale. Pazzesca anche la caratterizzazione del presunto demonio: nulla lascia intendere che possa esserlo, se non i deliri di Mark, ma una volta che si viene a conoscenza della sua natura, non può non strappare più di una risata il suo look che ricorda più quello di un prestigiatore di fine ‘800 che non la personificazione del Male.
Curiosa la forte contrapposizione tra una fotografia e un’impostazione elegante e la crudeltà ed estremismo visivo delle morti. Liberatore non fa mancare nemmeno qualche scena di morboso erotismo. Come pregio innegabile, invece, il film ha l’ambientazione, l’isola della Giudecca a Venezia, resa in maniera perfetta e cornice ideale per il suo svolgimento. Debitore di Omen – Il Presagio, ma soprattutto del già citato classico di Roman Polanski, Nero Veneziano magari non rimarrà impresso nella sua interezza, ma qualche immagine forte vi rimarrà nella mente. Teso ed esoterico.