La nouvelle vague del cinema horror francese mi piace. Alexandre Aja, Christophe Gans, Xavier Gens e Pascal Laugier sono autori di opera interessanti, in modo diverso ma spesso convincente. E di Laugier nello specifico ero rimasto folgorato circa tre anni fa, quando vidi il fortissimo Martyrs, film violento, fisico ma anche mistico nella sua ricerca del dolore, assimilabile ad estasi. Mi ero ripromesso sin dall’epoca di rispolverare la prima opera su lunga distanza del regista francese, e quest’oggi, con un ritardo importante, è finalmente arrivato il momento di parlare di Saint Ange.
Parlando della trama, non si può non pensare subito a diverse altre pellicole, ambientate negli stessi anni o in luoghi analoghi. Ci troviamo nel secondo dopoguerra in un orfanatrofio isolato. Tre flash istantanei: Session 9, The Orphanage, The Others. Boom! Rischio originalità latente? Apparentemente si, ma i punti di contatto, seppur esistenti con tutti e tre i succitati film, rimangono piuttosto marginali. Infatti l’opera di Laugier sposta il suo focus sull’interiorità della protagonista Anna, interiorità da intendersi come fisica e psichica, e su altre tre figure femminili, che compongono le uniche presenze materiali del film. Tuttavia, come accade spesso in storie di questo genere, è il luogo stesso a diventare elemento fondamentale della vicenda, esteriorizzazione di paure e traumi dei protagonisti.
L’orfanatrofio di Saint Ange rimane disabitato, poiché tutti i bambini vengono trasferiti presso un altro istituto. Al suo interno rimangono Helenka, un donnone che si occupa di governare l’edificio, Judith, ragazza che trasmette fin dallo sguardo un forte malessere psicologico, probabilmente dovuti a disturbi piuttosto gravi, ed Anna, una giovane chiamata per occuparsi delle pulizie. Di tanto in tanto apparirà suor Francard, donna di polso, dura e misteriosa. Per Anna l’esperienza nell’orfanatrofio si rivelerà via via distruttiva per il suo equilibrio psichico, a causa della sua curiosità su ciò che è accaduto nell’edificio in passato e della sua non accettazione della sua situazione. Infatti, la ragazza è incinta e, nel corso di alcune sequenze, in particolare di un suo incubo, si potrà cogliere come tale gravidanza, che cerca in tutti i modi di nascondere ricorrendo a strette fasciature, sia stata indesiderata. Un trauma, il suo, che va posto al centro dell’attenzione dello spettatore, poiché rappresenta una possibile chiave di lettura per interpretare il criptico finale.
Non verrà fornita una vera e propria spiegazione del film ed in particolare del suo finale, sia perché non necessariamente ne esiste una soltanto, sia perché la mia opinione personale tale è e potrebbe rivelarsi errata. Tuttavia è apprezzabile, coraggiosa e rischiosa la scelta di Laugier di raccontare una storia tutto sommato semplice, quasi banale nello svolgimento, eppure molto profonda dal punto di vista delle implicazioni psicologiche. Dal punto di vista visivo Saint Ange è ben diretto e gode di una ottima fotografia, con tocchi di classe assoluti quale, a titolo di esempio, la scena fondamentale del finale, che brilla per eleganza. Buone ed in alcuni casi ottime le prove recitative, con Anna, interpretata dalla brava Virginie Ledoyen, che spazza via gli stereotipi della protagonista femminile dei film horror, perennemente impacciata, urlante e terrorizzata sempre e comunque. Lei è invece un personaggio coraggioso, che affronta il suo incubo e lo guarda in faccia senza indietreggiare e senza patetici tentativi di fuggire dinanzi al suo stesso io.
Saint Ange non è ben catalogabile e questo è un suo pregio: non è un horror puro, non è un thriller psicologico. Ha elementi di entrambi i generi e l’amalgama funziona, con una presentissima traccia drammatica. Non aspettatevi dunque sobbalzi, le sequenze ad alto tasso adrenalinico e tensivo sono un paio, la prima delle quali dopo ben 50 minuti di pellicola. Provate ad aprire la mente ed a godervi il film per le sue virtù e per il suo essere diverso non forzato e ricco di classe. Non necessariamente questo significa che si tratta di un’opera perfetta o imperdibile, ed il voto che avete letto all’inizio della recensione lo dimostra, ma rappresenta un bell’esempio di come si possano raccontare infinite storie sempre diverse pur partendo da luoghi o situazioni comuni.