Con questo articolo, inauguro una serie in cui parlerò brevemente – mi auguro – delle mie ultime letture.
Al momento, lo immagino come un appuntamento stagionale, quindi all’incirca ogni tre mesi, in modo da raccogliere un numero di letture sufficienti a un articolo di questo genere.
È probabile che di tanto in tanto deciderò di soffermarmi in modo particolare su un libro specifico, ma mi è parsa un’idea sensata mantenere un diario di lettura di rapida fruizione.
Mi auguro possa essere utile per ricevere stimoli su nuovi libri da leggere o per fornire un punto di vista snello su quelli già letti, per confrontarsi e discuterne insieme.
L’imitazion del vero, Ezio Sinigaglia (Terrarossa Edizioni, 2020)
Terrarossa e Nutrimenti stanno proseguendo a braccetto questa operazione di recupero dei testi di Ezio Sinigaglia, un autore contemporaneo che ha avuto scarsa fortuna e sta vivendo una seconda giovinezza editoriale.
Nel caso de L’imitazion del vero, Sinigaglia regala una novella che fa del linguaggio uno dei punti caratteristici, rievocando una costruzione sintattica e scelte lessicali di un italiano ormai in disuso.
Per esemplificare, riporto l’incipit:
Viveva un tempo nella città di Lopezia un artefice di grandissimo ingegno, donde la fama oltre le mura della città ed i confini medesimi del Principato volava tanto, che nei più remoti angoli della Cristianità l’eco se ne coglieva. E benché questo si fosse in effetto il mestier suo, grave ingiuria gli si farebbe chiamandolo col nome di falegname; poiché si era bensì col legno che le sue mani costruivano, ma tali e così fatti prodigi da quelle mani uscivano, che nessuno nel legno da umana scienza costrutti crederli non poteva: seggiole, a modo d’esempio, le quali, al semplice muover d’un gancio che recavan nel dorso celato, si trasformavano in tavoli; tavoli, cui pel banchetto due dozzine di commensali facevan corona e che di poi, gli ospiti alle loro dimore tornatisi, si potevan ripiegare e rimpicciolire tanto da trovar albergo in un cassetto; cassetti che, tratti dalle lor sedi e l’un coll’altro congiunti, diventavan bauli; bauli entro i quali, quantunque non maggior di quel d’una seggiola il loro ingombro si fosse, suppellettili e arredi di tutta una sala collocar si potevano.
Oltre al linguaggio particolare e ricercato, Sinigaglia infila un paio di trovate narrative particolarmente gustose e anche un po’ pruriginose. Nelle atmosfere e nel gusto estetico si entra dopo le prime due-tre alienanti pagine, poi diventa un viaggio assai gradevole.
Da sottolineare anche la cura del prodotto editoriale, punto a favore per l’ottimo lavoro che la casa editrice pugliese sta svolgendo da qualche anno a questa parte.
Norwegian wood, Haruki Murakami (Einaudi, 1987)
Il primo Murakami non surreale che leggo.
Nel Giappone a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, Murakami ricrea col filtro della nostalgia l’epoca della sua giovinezza.
Il punto di vista è quello di un ragazzo, alle prese con la propria formazione sentimentale e individuale, che si muove per le strade di Tokyo.
Ospite di una struttura ricettiva, si circonda di personaggi memorabili – in senso letterale: è difficile dimenticarli per via di certe loro peculiarità –, passeggia tantissimo, parla abbastanza e gli vengono raccontate molte storie.
La libertà narrativa di Murakami, accompagnata dal suo gusto linguistico e dalla abilità evocativa, rende la lettura di Norwegian wood un viaggio assai godibile.
Probabilmente potrebbe risultare ancora più apprezzabile se letto durante l’adolescenza e la prima giovinezza, ma ciò non toglie nulla all’opera dell’autore giapponese.
Come sempre capita con Murakami, un grande risalto viene dato anche alla colonna sonora, qui presente fin dal titolo.
Qui è disponibile una mia recensione un po’ più articolata.
Kafka sulla spiaggia, Haruki Murakami (Einaudi, 2002)
Non so quanto ho capito davvero del romanzo e quanto invece l’ho dedotto un po’ a tentoni.
Anche qui, come in Norwegian wood, ci troviamo di fronte a un romanzo di formazione e di viaggio, sia esteriore che interiore. Il percorso non è affatto lineare: è anzi movimentato da accadimenti strambi, da molti momenti in cui il surreale prende possesso delle pagine e travolge il lettore.
L’esperienza che si vive leggendo Kafka sulla spiaggia è proprio quella di un viaggio a tratti indecifrabile, ma capace di risultare irresistibile.
Mi sono interrogato sulle ragioni di una lettura così piacevole e rapida, in grado di creare quasi dipendenza, a fronte di un contenuto tanto criptico e oscuro.
La risposta che mi sono dato è che non è sufficiente solo la penna di Murakami: la storia è ricca di personaggi molto particolari, alcuni addirittura assurdi, come la visione del colonnello Sanders di KFC, e di atmosfere oniriche che ammaliano e rendono stimolante la ricerca della verità da parte del lettore.
Nel finale, quando alcuni aspetti della storia diventano chiaro, c’è spazio anche per una rilettura a ritroso di tanti indizi sparsi nel corso del romanzo, il cui significato acquisisce valore e spessore solo in vista della conclusione.
Il romanzo gioca su tanti livelli, si presta ad altrettanti livelli di lettura e riesce a rendersi apprezzabile da lettori di vario gusto ed estrazione.
Il cuore dell’uomo, Jón Kalman Stefánsson (Iperborea, 2011)
Lo ammetto, con l’autore islandese sono di parte. Potrei sostanzialmente dire che è il mio autore preferito, quindi ogni mio giudizio vale quel che vale.
Il cuore dell’uomo conclude un’anomala trilogia che racconta la storia del ragazzo, personaggio senza nome, nell’Islanda della seconda metà del XIX secolo.
Storia dura, di solitudine e di spazi infiniti e ostili, in cui la natura è solo una metafora delle difficoltà relazionali e delle piccole battaglie a cui la vita costringe gli esseri umani ogni giorno. Il tutto condito con uno stile e una lingua che hanno più a che fare con la poesia che con la prosa, e che rendono la lettura una costante fonte di meraviglia. A patto, naturalmente, di ritrovarsi sulla lunghezza d’onda tematica ed espressiva di Stefánsson.
Non è il migliore tra i romanzi di Stefánsson che ho letto, e di sicuro non è quello dal quale iniziare se non lo si conosce (in quel caso, il mio consiglio è di partire da Luce d’estate, ed è subito notte oppure da Storia di Ásta.
Nonostante ciò, è la degna conclusione di una trilogia che ha momenti di altezze letterarie vertiginose.
(non) Un corso di scrittura e narrazione, Giulio Mozzi (Terre di Mezzo, 2009)
Si tratta di una raccolta di articoli a tema scrittura.
Mozzi raramente è scontato, inoltre ha un tono e un piglio che rendono la lettura piacevole a prescindere dal contenuto e da ciò che dice.
Non ama parlare di regolette e di formule, neanche di struttura. Il suo approccio è più libero, più artistico, e si fonda principalmente sugli intenti e sugli effetti, portando l’autore, o aspirante tale, a interrogarsi sui concetti fondativi rispetto all’atto dello scrivere e al suo significato.
In ogni caso, qua e là dispensa anche qualche consiglio più concreto e di buon valore.
Sebbene l’opera sia piuttosto inorganica, dal momento che raccoglie un centinaio di articoli diversi, e pur essendo rivolta principalmente a chi vuole scrivere, potrebbe rivelarsi portatrice di stimoli utili e interessanti anche per il lettore curioso di indagare il mondo della creatività e la possibile genesi delle opere che legge.
Austerlitz, W. G. Sebald (Adelphi, 2001)
Ultima opera dell’autore tedesco W.G. Sebald, uscita pochi mesi prima della sua tragica morte, Austerlitz è un romanzo che racconta il recupero, da parte dell’omonimo protagonista, di pezzi del proprio passato più lontano, quello di bambino.
Pezzi sepolti che riemergono attraverso incontri, visite a luoghi, elementi in grado di fare tornare in superficie i dettagli di una infanzia tragica, caratterizzata dagli orrori della seconda guerra mondiale e dalla perdita dei riferimenti familiari.
Sin dall’infanzia e dalla giovinezza, non ho mai saputo chi in realtà io sia. Dal mio attuale punto di vista mi rendo ben conto che già solo il mio nome e il fatto che, di questo nome, io sia rimasto defraudato fino ai quindici anni avrebbero dovuto mettermi sulle tracce della mia origine; eppure, negli ultimi tempi, ho anche capito per quale motivo un’istanza anteposta o preposta alla mia capacità di pensare, e con ogni evidenza dominante in modo assai avveduto da qualche parte del mio cervello, mi abbia sempre protetto dal mio segreto e sistematicamente distolto dal trarre le conclusioni più ovvie e dall’intraprendere ricerche coerenti con tali conclusioni. Non è stato facile liberarmi dal disagio che provavo nei confronti di me stesso, né sarà facile presentare ora le cose in una successione più o meno ordinata.
Può essere definita come una storia di riscoperta graduale della memoria arcaica, quella infantile, attraverso incontri e luoghi che rievocano ricordi sopiti.
A colpirmi in maniera particolare della prosa di Sebald, oltre alla peculiarità del testo privo di suddivisione in paragrafi, è stata la sua abilità descrittiva. In molti casi, ad accompagnare il testo ci sono delle fotografie in bianco e nero. Mi è capitato di soffermarmi su una foto e di leggere due o tre volte la descrizione fattane da Sebald, per provare a capire il suo sguardo e il modo in cui restituisce a parole ciò che vede in un’immagine.