Zeder (1983)

Anno di uscita
1983
Titolo originale
Zeder
Regia
Pupi Avati
Genere
giallo, mistero, soprannaturale
Cast
Gabriele Lavia, Anne Canovas, Paola Tanziani, Cesare Barbetti
Durata
95'
Paese
Italia
Voto
8.5

Non faccio mistero della mia predilezione per il cinema horror nostrano, passione che affonda le proprie origini in una notte, da ragazzino, in cui mi ritrovai a vedere La Chiesa di Michele Soavi: quella macabra vicenda mi si stampò in testa tanto da farmi stare male, e fu probabilmente quello il momento in cui scattò la scintilla nei confronti di un genere che divenne il mio prediletto, quello che tuttora, a distanza ormai di circa vent’anni, mi appassiona, mi diverte, mi incuriosisce, mi entusiasma. E, nel caso di molti film prodotti in Italia, mi terrorizza.

La premessa era dovuta perché è gia la seconda volta che il signor Pupi Avati, professione regista, mi regala attimi carichi di tensione e paura, dopo lo splendido ed a volte dimenticato La Casa Dalle Finestre Che Ridono. Il filone degli horror italiani degli anni Settanta/Ottanta – e non credo ci sia bisogno di citare gli esponenti di maggior rilievo, vero? – ha consegnato alla nostra storia cinematografica delle perle di valore assoluto, il cui imprinting deriva indubbiamente dalle opere del maestro Mario Bava e dai primi lavori di Dario Argento, tanto da conservare alcuni elementi che hanno reso i film italiani inconfondibili per ritmo, atmosfera e svolgimento. Attenzione però. Ciò non va confuso con scarsa creatività o con poca originalità, e per darvene un esempio concreto ecco cascare a fagiolo il film di cui ci occupiamo quest’oggi, il misterioso Zeder di Avati.

Uscito nelle sale cinematografiche nell’agosto 1983, narra le indagini portate avanti da Stefano, uno scrittore alla ricerca dell’ispirazione per il suo terzo romanzo e che casualmente si imbatte in una pista affascinante e misteriosa che lo risucchia completamente. Ricevuta in dono da Alessandra, la sua ragazza, una macchina da scrivere, Stefano si accorge della presenza sul nastro di un testo scritto dal precedente possessore dello strumento e che fa riferimento a particolari tipi di terreni denominati terreni k, che godrebbero di strane proprietà chimiche. Desideroso di ottenere maggiori informazioni in merito, si reca da quello che doveva essere il precedente possessore della macchina da scrivere, tale Luigi Costa, che però nega di avere a che fare con quell’oggetto. Quando tornerà quella stessa sera a trovare Costa, Stefano farà la conoscenza di don Mario, un sacerdote che lo informerà del fatto che Luigi Costa non vive più lì da molto tempo. Il mistero si infittisce, e porterà la coppia di fidanzati sulle tracce delle misteriose ricerche compiute dapprima dallo scienziato Paolo Zeder, poi da un certo Meyer ed infine proprio dallo stesso Costa. Qual è la particolarità dei terreni k? E perché gli etruschi costruivano le loro necropoli in luoghi con determinate caratteristiche? Sono solo alcune delle domande e dei misteri di cui è disseminata la vicenda, e che vi lasciamo il piacere di scoprire passo dopo passo.

L’impianto del film, come detto in apertura, è tipicamente italiano, e riporta su schermo luoghi – Bologna e Rimini –, stereotipi, personaggi che ci appartengono in tutto e per tutto. Classica anche la scelta di coinvolgere un comune cittadino in un’indagine, escludendo le forze dell’ordine, relegate ad un ruolo secondario, caratteristica che già il primo Argento aveva abbondantemente utilizzato. Avati, tuttavia, ha un tocco differente rispetto al regista di Profondo Rosso: è meno violento e sanguinolento, ma più atmosferico, con temi legati all’alchimia, alle voci di paese, al sovrannaturale. In Zeder anticipa un tema che Stephen King avrebbe toccato soltanto l’anno successivo con la pubblicazione di Pet Sematary, riuscendo ad essere originale ed avvalendosi ancora una volta dell’aiuto del fratello Antonio e di Maurizio Costanzo (si, proprio quel Costanzo) per la stesura dell’ottima sceneggiatura. Da segnalare la presenza nel cast, nel ruolo del protagonista Stefano, di Gabriele Lavia, già splendido nelle vesti di Carlo nel succitato Profondo Rosso.

Si diceva che l’horror di Avati è subdolo, entra sottopelle con personaggi quotidiani e normali, che riesce a calare in contesti credibili anche quando si teorizzano cose fuori dall’ordinario. Ed ha forza visiva, perché nonostante la sua rigidità e l’uso statico della macchina da presa, dà vita ad immagini e sequenze che rimangono fisse in testa e che si vivono con tensione e paura. Senza svelare troppo, assolutamente da brivido tutta la sequenza in cui Stefano scopre dei monitor che mostrano l’immagine di un uomo morto, ripreso da una telecamera posta all’interno della bara. E’ il momento, per voi, di calarvi lentamente nella Rimini dei primi anni Ottanta, per vivere tutto d’un fiato la storia di Stefano ed Alessandra fino all’apice conclusivo, imprevedibile e dannato. Una chicca assoluta, in definitiva, per tutti gli amanti del buon cinema horror nostrano. Per altre fasce di pubblico potrebbe risultare lento e statico, nelle interpretazioni quanto nel ritmo, ma la speranza è che la caratura della trama riesca a convincere questi ultimi ad offrire una chance a Zeder. A mio modesto parere, non se ne pentiranno.

Zeder (1983)
Voto del redattore
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